Aurora, il mio tirocinio da educatrice in piena pandemia
Aurora De Cicco è l’ultima studentessa, in ordine di arrivo, ad affrontare un tirocinio in hospice. Frequenta il corso di laurea in Scienze dell’Educazione e della Formazione all’Università Cattolica di Milano, per il suo tirocinio ha scelto un’esperienza nell’ambito delle cure palliative e ha optato per l’Hospice di Abbiategrasso. Una scelta non scontata della quale abbiamo chiesto delucidazioni proprio alla diretta interessata.
Ciao Aurora, secondo la tua esperienza è utile avere in hospice la figura dell’educatore?
Sì, moltissimo. L’educatore nelle cure palliative lavora per garantire una maggiore consapevolezza nel fine vita aiutando le persone malate ad accettare la loro condizione. Purtroppo, o per fortuna, le persone solitamente non sono pronte ad affrontare il progressivo decadimento fisico e l’idea di una morte imminente. La sensibilità e la professionalità dell’educatore in cure palliative vanno proprio a colmare e dare un senso a questo vuoto. Il professionista, attraverso gli strumenti di cui dispone, effettua un lavoro mirato a far emergere il potenziale residuo o latente della persona malata, raccogliendo le emozioni e il vissuto del malato, e si confronta con l’équipe multiprofessionale. Attraverso la collaborazione delle altre figure coinvolte, può successivamente trovare le soluzioni migliori, nel totale rispetto della personalità e prendendo in considerazione l’intera globalità della persona. Nei confronti del caregiver e dei familiari svolge un compito di orientamento e di conforto perché, molto spesso, chi assiste quotidianamente una persona malata dimentica “di ascoltare sé stesso, la sua emotività e i suoi bisogni”. Dunque, punto cardine è accompagnare il familiare nel percorso di comprensione e lettura del dolore e della separazione.
Ci vedo delle analogie con il ruolo dello psicologo, sbaglio?
Sì! Sono stata molto netta nella risposta ma in realtà non esattamente così. Di certo sono alcune, anzi diverse, analogie con la figura dello psicologo in cure palliative. Mi piace pensare che “dove inizia l’educatore poi prosegue lo psicologo” ed entrambe le figure si intersecano continuamente per garantire, sotto tutti i punti di vista, un totale sostegno alla persona. Diciamo, senza banalizzare, che l’educatore riceve un ampio flusso di emozioni e di pensieri della persona. Questi pensieri, queste sensazioni vengono riportate all’équipe multiprofessionale che le sottopone allo psicologo. Lo psicologo è una figura professionale che spesso le persone faticano ad accettare per diverse ragioni, spesso per pudore. A tal proposito, uno dei compiti dell’educatore è proprio guidare le persone nel percorso di accettazione della malattia ma anche degli interventi proposti dai vari professionisti coinvolti.
Come hai conosciuto l’Hospice di Abbiategrasso?
È merito di Patrizia Tortora, che è poi stata anche la mia tutor nel corso del tirocinio. Nel 2019 all’Università partecipai ad un incontro tenuto da Patrizia e ne rimasi letteralmente affascinata. Mi colpì per la competenza professionale, per la grande umanità e per il suo modo di raccontare la vita in hospice e le cure palliative in generale. Sono anche sincera, non pensavo ci fosse spazio nelle cure palliative per gli educatori. Invece ascoltare Patrizia nei suoi 25 anni di esperienza con i malati inguaribili mi ha aperto un mondo e così ho provato a propormi. Inoltre, la scelta di intraprendere questo percorso di tirocinio in Hospice è stata dettata da una profonda spinta “interiore” che mi porta ad aiutare l’Altro costantemente. Mi piace definire questa scelta come una sorta di “riscatto alla vita” poiché negli anni passati, a causa di una brutta ma ormai passata malattia di papà, sono stata io stessa e noi come famiglia a dover cercare supporto e risposte, prettamente mediche, da persone estremamente competenti del settore.
Però hai fatto il tirocinio in un periodo davvero particolare. Com’è andata?
Bene, anzi benissimo nonostante il periodo. Devo ammettere che non è stato facile perché la mia professione vive anche di linguaggio non verbale: una mano accarezzata, un abbraccio o un sorriso sincero. Queste cose il Covid le ha completamente stravolte, anche se non sono sparite. Le mascherine nascondono le labbra, ma non i sorrisi. Al tempo del Covid ho imparato a riconoscere i sorrisi dagli occhi e trovare approcci diversi, ma coerenti con gli obiettivi e il contesto in cui andavo ad operare.
Ho imparato che per rassicurare non sono necessarie tante parole, è sufficiente uno sguardo felice.
A dirla tutta, affrontare il tirocinio in piena pandemia mi ha davvero motivata! Vedere il volto sereno dei pazienti, anche solo passando nelle camere, riempie il cuore di gioia, di gratificazione e mi ha fatto proprio sentire parte integrante dell’Hospice.