Ripartire dopo un lutto con l’aiuto delle immagini
Claudio mi ha salutata ringraziandoci di essere stati la borraccia colma di acqua fresca nel suo deserto. Un terreno che è andato inaridendosi sempre di più, una veloce desertificazione che culmina con la scomparsa del figlio gravemente malato. Claudio è un esempio che raffigura metaforicamente ogni singola esistenza che incontro nel mio lavoro. È questo che adoro del mio lavoro di psicologa in cure palliative: inoltrarmi nelle pieghe delle vite di coloro che assisto, scoprire le sfumature del loro vivere, carpirne i dettagli. Sono i dettagli che rendono una storia degna di essere ascoltata e sono questi particolari che mi spalancano le porte dell’immaginazione.
Mi sforzo di tradurre i pensieri e le paure di pazienti e famigliari in illustrazioni concettuali. Catturo istantanee che evolvono continuamente ed è affascinante notare che, procedendo con il lavoro, queste si modifichino e aiutino le persone a vedere le cose da un punto di vista differente. Un paio di occhiali nuovi per vedere panorami sconosciuti e possibilità non considerate.
Le immagini traducono con facilità concetti complessi. Ho raccolto metafore di ogni genere e spesso davvero efficaci. Ad esempio Paola, sorella di un paziente, si sentiva come “una lavatrice che non si ferma mai e va al massimo dei giri”. Enrico ha il padre che sta morendo e descrive la relazione con i genitori come un recinto: “Mi hanno sempre lasciato fuori dal loro recinto e oggi non so se posso entrare.” Valerio paragona la malattia del figlio ad un monte: “È come se stessi scalando una montagna, sono stanchissimo.”
Nel mio lavoro le immagini fungono da specchi che permettono di cristallizzare lo stato d’animo delle persone in un momento così particolare e di cambiamento, un tempo che per sua natura è doloroso. Spesso durante i colloqui dico volutamente che non posso togliere il dolore che le persone vivono, perché il dolore è necessario. In psicologia un sintomo è un messaggio che va decodificato e decifrato, compreso nel suo significato più profondo perché ci permetta di iniziare un cambiamento. La stessa cosa vale per il dolore: è una notizia utile che va letta all’interno della storia relazionale e va decodificata. Senza quel disagio il cambiamento non sarebbe possibile. Il campanello d’allarme scatta quando la sofferenza non viene raccontata, quando dalle storie non emerge.
C’è chi si sente un combattente in grado di vincere ancora una volta o chi vive sotto il peso di un macigno. C’è chi usa metafore efficaci e inusuali: “Ha presente il kebab, dottoressa? Mi sento così, mi stanno affettando un pezzo alla volta. E faccio fatica a tirarmi dietro tutti, come un treno vecchio e pesante.” Carla racconta in questo modo i giorni di assistenza al fianco del marito. Io la ascolto ma abbandono subito l’immagine del kebab: è poco funzionale in quel momento, mentre i vagoni del treno rendono bene l’idea che Carla ha in testa. E rendono possibile uno sviluppo, danno credito alla narrazione che insieme costruiremo. Carla si trasforma così in una locomotiva che per anni ha trascinato i pesanti vagoni della sua vita: il marito, la sorella, i genitori, i colleghi. Lei è un passo avanti a tutti e si fa carico degli sforzi che competono a chi ha il ruolo di leader. Ma la scomparsa di uno dei vagoni (il marito) obbliga il treno a fermarsi e fare il punto della situazione. La locomotiva è stanca e per riprendere il percorso deve alleggerirsi: i vagoni arrugginiti e poco importanti vengono così abbandonati sopra i binari.
Le immagini non sempre emergono e in questi casi sono io a proporne una basandomi su quello che ascolto. In questo modo sposto la conversazione su un piano nuovo, un terreno diverso, quello dell’immaginario. Una strada alternativa ma percorribile perché familiare e coerente con la storia di vita che percepisco. Ci sono persone a cui ho dato un nuovo ruolo. Come Federico, un 53enne appassionato di calcio e padre di tre figli, che è costretto a casa dalla malattia. Dalla panca di legno di casa sua mi racconta che si sente ormai inutile per la sua famiglia, perché sta tutto il giorno seduto e osserva. A me ricorda subito un allenatore di calcio silenzioso che guarda i giocatori. Un padre che allena i suoi ragazzi a stare senza una guida. “Federico, lei oggi rimane qui seduto a fare il supervisore. Osservi e cerchi di comprendere se può permettersi di andare in poltrona a riposarsi un po' o se deve tenere ancora duro perché vede i suoi ragazzi non ancora organizzati al 100% a stare senza di lei.” Lo stare seduto diviene in questo modo qualcosa di nuovo per Federico. Stare in panchina significa avere ancora un ruolo, essere utili e importanti anche se fermi. E grazie a questa immagine si è aperta una conversazione sulle relazioni con i suoi figli che a breve avrebbe dovuto salutare, consapevole del peggioramento.
Spesso le immagini che mi balzano alla mente sono molto legate alla casa e agli oggetti che stanno tra le mura domestiche. La cassettiera è una rappresentazione ricorrente: con Flavia l’ho utilizzata per aprire una conversazione di fine vita con il padre. Per loro alcuni argomenti erano tabu, era come se alcuni cassetti non si potessero aprire. Ho chiesto a Flavia di ribaltare tutta la cassettiera e parlare con il padre. Al colloquio successivo mi conferma che è riuscita nell’intento: “ho fatto come mi ha detto, ho ribaltato la cassettiera e ci siamo parlati, sono riuscita a dirgli le mie paure, insomma a salutarlo.” Per Paola “la lavatrice si è fermata” e da quando il fratello non c’è più i suoi panni possono finalmente asciugare al sole. Enrico si è superato e ha “abbattuto le mura del recinto”. Ora all’ingresso ha posizionato un cancelletto attraverso il quale può avvicinarsi un poco a suo padre e conoscere qualcosa di più di quel tempo che resta.
Sono tante le immagini che mi vengono offerte o che rubo dalla conversazione. Hanno tutte una dignità, tutte una storia che necessita di essere raccontata. Io le catturo, quasi fossero farfalle. In fondo mi presento come psicologa ma mi piace vedermi come una cacciatrice di immagini.