Un palliativista a supporto degli ospedali per combattere il COVID-19: settimana 4

Dopo il covid niente sarà più come prima

Lo slogan di questi tempi è: ‘Dopo il covid niente sarà più come prima’. Io ci credo da sempre per qualsiasi evento della vita, sia lavorativa che personale. Questa esperienza è stata per me una crescita e ringrazio l’Hospice di Abbiategrasso per aver creduto nel progetto, avermi sostenuto e aiutato grazie al lavoro responsabile e sensibile di ciascuno.

14/4/2021 | Racconti ed interviste

Ciao Clarissa, se dovessi fare un bilancio della tua attività, cosa potresti dirci?

Dal 18 marzo al 18 aprile sono stati ricoverati a Magenta 194 pazienti con diagnosi di polmonite COVID-19 positivi e deceduti 44. Nello stesso periodo 185 consulenze di cure palliative per 70 assistiti, di cui 52 (l'83%) COVID-19 positivi. Sarebbe facile pensare che tutti questi 52 siano deceduti, ma invece ben 15 sono stati dimessi verso altre strutture di minor intensità o sono tornati a casa.

Il lavoro in Ospedale si sta progressivamente riducendo. Basti pensare che dei cinque reparti dedicati a pazienti COVID positivi ormai si è arrivati a tre. La mia attività è diminuita e a partire da questa settimana sarò presente solo a pomeriggi alterni. Oramai, così come accade nel pronto soccorso, vedo più pazienti non COVID rispetto a chi è affetto dal virus. Lo specifico perché il bisogno di cure palliative è rimasto lo stesso di prima per tutte le altre patologie.

Tornando al bilancio della mia attività devo ribadire che le prime tre settimane sono state davvero intense, ero quasi disorientata. Dal punto di vista tecnico abbiamo dovuto individuare una risposta per ciascuno dei sintomi rilevati. Inoltre, una difficoltà era riuscire a costruire in breve tempo un linguaggio condiviso con l’equipe. Dal punto di vista medico si lavora con rianimatori, pneumologi, internisti, infettivologi e non tutti hanno una conoscenza corretta delle cure palliative. Mi sono quindi ritrovata a lavorare con medici che non conoscevo e che avevano un’idea di palliazione limitata al solo fine vita. Dunque, ho dovuto fare un grosso sforzo per far capire che le cure palliative tutelano il tempo della morte, ma garantiscono il controllo dei sintomi per tutti quei pazienti che hanno la possibilità di superare l’infezione e di essere aiutati a tollerare alcuni strumenti che ho imparato a conoscere anch’io in queste settimane.

Immagino che uno degli strumenti più usati e più invasivi sia il casco per la respirazione. Ci dici qualcosa in più su questo oggetto misterioso?

Il casco viene classificato come dispositivo non invasivo di ventilazione. Ci riferiamo comunque ad uno strumento che non sempre è ben tollerato: alcuni riescono a fare le parole crociate, altri passano le ore nel tentativo di rimuoverlo. Stiamo parlando di qualcosa di simile a un casco da astronauta, trasparente e di plastica, ancorato al collo con dei pesi e con delle bretelle agganciate alle braccia. Un tubo entra da un lato e insuffla aria calda da un ventilatore, una condizione tutt’altro che piacevole: immaginate di avere la sensazione di non respirare e qualcuno che vi punta sul viso un phon con aria calda. A questo si aggiunge il rumore, l’impossibilità di bere e mangiare se non attraverso un forellino per inserire una cannuccia e una cerniera per la somministrazione delle terapie.

Che tipo di terapie?

Abbiamo dovuto optare per farmaci che non compromettessero il quadro respiratorio ma che garantissero al paziente di rimanere più rilassato. Noi palliativisti conosciamo molto bene l’utilità di farmaci quali oppiacei e benzodiazepine per il controllo della fatica respiratoria. Per alcuni casi è stato necessario condividere con i rianimatori nuovi schemi di terapie che non influissero sul quadro respiratorio per garantite al paziente di tollerare quei dispositivi che potevano fare la differenza nel migliorare il loro quadro clinico. Non meno trascurabile la via di somministrazione, sia per il paziente che ha difficoltà nel deglutire molti farmaci, sia per la tutela dell’infermiere che ogni volta che apre la cerniera per la somministrazione rischia l’aerosol di aria infetta. I pazienti più gravi hanno potuto morire senza soffrire in sedazione, alcuni con la presenza mia o di qualche infermiere che non li ha lasciati fino all’ultimo respiro.

È un percorso, quello descritto finora, che proseguirà in futuro?

È un percorso iniziato molti anni fa con le consulenze all’Ospedale di Magenta e Abbiategrasso. Ma ora il bisogno si sta allargando e si concentra nelle RSA, è lì che oggi sono più utili le competenze di un palliativista. Infatti la consulenza da parte della nostra equipe si sta orientando verso queste strutture che al momento registrano un bisogno crescente.
Dobbiamo considerare che per molti pazienti qualità di vita significa non essere trasferiti da una RSA in ospedale, se non quando l’ospedale può fare la differenza in termini di prognosi. Le case di cura con il supporto dei palliativisti potrebbero più facilmente assicurare le cure necessarie ai malati assistiti. Meglio ancora se il paziente può restare a casa, accanto ai propri affetti. Fortunatamente ci stiamo spostando progressivamente da una logica accentratrice (l’ospedale è il fulcro) ad una logica di più ampia diffusione della medicina sul territorio e la nostra Regione sta lavorando in questa ottica. L’avvio delle consulenze nelle RSA (per adesso in modalità “telemedicina”) ha spinto l’Hospice a fare investimenti in risorse umane, con l’assunzione di un nuovo medico e di un infermiere. Sono certa che questa sia la strada giusta.

Hai qualche aneddoto, qualcosa che ti porterai a casa per sempre dopo questa esperienza?

Dopo qualche giorno dall'arrivo in ospedale una collega mi chiede di portare dei ricordi di un suo carissimo amico alla madre ricoverata al 9° piano covid. Penso: ho un sacco di cose per la mente e trovo la richiesta un po’ fuori luogo. In quei primi giorni ero disorientata dalle tante necessità tecniche, in verità quella richiesta è stata la mia epifania emotiva. Aprire la busta con Maria Grazia è stato come contagiarmi di lei, della sua storia, recuperare l'umanità di ogni persona che ho incontrato e che l'emergenza per una frazione di tempo mi aveva fatto perdere. Le foto, i disegni....
Grazia è deceduta dopo otto giorni, il letto sfatto è rimasto vuoto solo per qualche ora. I disegni invece sono rimasti appesi.

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