Le cinque caratteristiche che un volontario in cure palliative deve possedere

Le cinque caratteristiche che un volontario in cure palliative deve possedere

Elisa Marcheggiani è la psicologa che insieme a Giorgia Vacchini si occupa della gestione del percorso psicologico con pazienti e famigliari in hospice e al domicilio. Oltre a questi aspetti clinici esiste un’altra attività altrettanto importante che riguarda il coordinamento e la formazione dei volontari dello “stare”, cioè quelli che svolgono il servizio a contatto con la persona malata.

10/4/2021 | Racconti ed interviste
Le cinque caratteristiche che un volontario in cure palliative deve possedere

Ciao Elisa, hai iniziato relativamente da poco con i volontari in cure palliative. Che gruppo hai trovato?

Ciao. Lavoro da poco meno di un anno all’Hospice di Abbiategrasso e devo riconoscere che ho trovato un gruppo di volontari già molto preparato e con esperienza. Da quando sono arrivata ho effettuato diversi colloqui di valutazione ai nuovi candidati e iniziato con alcuni di loro il percorso. Ritengo molto utile la formazione perché consente ai volontari di riflettere su alcune tematiche importanti e permette inoltre di incontrarsi e di mettere a confronto le esperienze vissute da ciascuno. Durante la formazione, l’anzianità di servizio può consentire anche ai nuovi inseriti di beneficiare della competenza di chi fa quest’attività da più tempo.

Se dovessi riassumere in cinque punti le caratteristiche di un volontario in cure palliative quali sceglieresti?

Ti direi in primis la motivazione: l'attività di volontariato risponde a bisogni propri oltre che a sentimenti di altruismo. In altre parole, è importante che il volontario sia a conoscenza delle necessità personali (ad esempio: sentirsi ancora utili) per evitare di utilizzare l’altro per colmare le proprie mancanze. Occorre capire qual è la motivazione che spinge una persona a percorre questa strada: a volte ci sono dei bisogni propri che possono scontrarsi con gli obiettivi di questa attività. Ad esempio, sarebbe meglio che un volontario non avesse esperienza di lutto recente per evitare di proiettare sul paziente alcuni aspetti propri. Il rischio è quello di identificarsi con i famigliari e dare vita a dinamiche relazionali che sfociano nell'area personale e non in una relazione d’aiuto.

La seconda qualità è semplicemente la capacità di ascolto attivo ed empatico. Ma quel semplicemente non è da tutti. L’ascolto attivo si differenzia dal solo sentire ed è libero dal giudizio: accettare pensieri, idee e opinioni anche molto distanti dalle proprie. Mi viene in mente il caso di un volontario molto credente che si confronta con un paziente ateo: occorre un ascolto attivo e non giudicante per avere un buon dialogo. Essere empatici significa sapersi immedesimare nell’altro, percependo emozioni, vissuto e pensieri. Consiste cioè nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti di vista.

Sicuramente, e qua riporto la terza caratteristica, è fondamentale la riservatezza. Le storie di vita con cui si entra in contatto devono restare confinate nello spazio protetto dell’Hospice. La condivisione deve avvenire solamente con altri volontari e con l’equipe curante per consentire al gruppo di trarne spunti utili e migliorare l’assistenza.

Quindi può capitare che sia il volontario a segnalare qualcosa al medico, allo psicologo o ad altri operatori?

Sì, certo, è successo diverse volte. Chiediamo ai volontari di fare un report - si tratta di una breve descrizione di quello che hanno percepito durante il turno – di cui raccogliamo i risultati, traendone informazioni preziose.

Ricordo il caso di una ragazza che non aveva mai voluto parlare o confidarsi con noi operatori mentre con un giovane volontario trascorse due ore a raccontarsi e a fargli capire quale era il suo bisogno in quel momento. In questo caso abbiamo capito che la paziente aveva bisogno più di una vicinanza amichevole, probabilmente di un suo coetaneo, e questo ci ha aiutato a migliorare l’assistenza e favorire la sua qualità di vita.

Tornando alle altre caratteristiche, invece, cosa puoi dirci?

L’adattabilità è importantissima. I nostri volontari si trovano in svariate situazioni con i malati: a volte ascoltano, altre aiutano a imboccare, in certi casi dialogano con i pazienti e in altri devono supportare i famigliari. Poi ci sono i volontari che per ragioni proprie hanno una professionalità che è utile al nostro lavoro. Penso a Gabriella che nella vita è una parrucchiera e in Hospice si trova spesso a fare l’acconciatura alle signore. C’è Mari che legge libri perché lavora in una libreria ed è un’accanita lettrice. Ci sono alcune volontarie che hanno fatto corsi di massaggio e ogni tanto si cimentano con questa attività per chi lo desidera. È anche capitato che un paio di volontari accompagnassero un paziente al suo bar preferito, organizzando il trasporto e assecondando le sue richieste. E poi c’è Carmen che è di supporto alla terapia assistista con gli animali. A nessuno dei volontari è però richiesto lo svolgimento di un ruolo operativo dal punto di vista clinico e assistenziale: non lavano i pazienti, non li cambiano e non somministrano terapie. Tendono ad affiancarsi agli operatori e a non sostituirsi.

L’ultima caratterista è l’umiltà che è connessa all’abilità di stare in gruppo. La spiego con la capacità di rimanere nel proprio campo di azione e nella consapevolezza dei propri limiti.
Stare in gruppo, nell’ambito delle cure palliative, significa anche accettare le indicazioni degli operatori, ricordando che c’è una professionalità ed un lavoro d’equipe in cui il volontario partecipa, può proporre suggerimenti, ma non spetta a lui il ruolo decisionale.

Per chiudere, te la senti di dare un consiglio a chi si approccia a questa forma di volontariato?

Innanzitutto se si ha avuto un lutto o una perdita significativa nell’ultimo periodo lo sconsiglio vivamente affinché questo non si traduca in ulteriore disagio per sé e per il malato. Occorre poi interrogarsi sull’opportunità di inserirsi in un contesto in cui medici e operatori possono avere idee, visioni e ideali diversi. Infine bisogna ricordare che facendo volontariato in cure palliative si è a contatto con persone che soffrono e che in breve tempo potrebbero lasciarci. Ci si deve chiedere se si è in grado di gestire la sofferenza, la morte e la tristezza che ne consegue. Con queste attenzioni il volontariato in cure palliative può essere un’esperienza gratificante e arricchente.
Mi piace chiudere con una citazione di Leo Buscaglia che vale sempre, non solo nel volontariato: “Troppo spesso si sottovaluta la potenza di un tocco, un sorriso, una parola gentile, un orecchio in ascolto, un complimento sincero, o il più piccolo atto di cura, che hanno il potenziale per trasformare una vita’’.

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